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martedì 30 dicembre 2014

EUGENIO MONTEJO





Parto con ogni nave di questo porto,

con ogni goccia azzurra di ossigeno
tra rauchi fischi.
Vado a Rotterdam, dove ora cade spessa la neve,
e i gabbiani olandesi
frugando tra le merci
si posano sugli alberi delle navi.
Una cabina mi attende in ogni nave,
un libro di Li Po per la mia traversata;
– cercatemi a Rotterdam, scrivetemi
anche se non partissi.
Se non parto a quest’ora lo farò in un’altra;
le navi cambieranno, non il mio desiderio;
il mio desiderio è a Rotterdam:
da qui lo intravedo assieme alla neve
tra le sue case.
Non c’è una sola via sul mare
che non abbia il suo contrario,
non ci sono modi di stare e di non stare dove si viaggia.
Se scegliessi un’altra via più semplice, più umana,
partirei senza assentarmi,
toccandola la neve mi parrebbe calda.
In ogni nave di questo porto
ho noleggiato il mio bagaglio;
se anche mi vedessero domani qui nei moli,
sono a bordo;
le navi cambieranno, non il mio desiderio;
– cercatemi a Rotterdam, scrivetemi,
il mio desiderio ha il volo del gabbiano
e neve tra le sue ali.
Eugenio Montejo
(Traduzione di Luca Rosi)
da “Poesia” n. 234 – Gennaio 2009, Crocetti Editore
***
Partida
Me voy con cada barco de este puerto,
con cada gota azul de oxígeno
entre roncos silbatos.
Me voy a Rotterdam donde ahora cae densa la nieve
y las gaviotas holandesas
hurgando las mercaderías
se posan en los mástiles.
Un camarote me espera en cada barco,
un libro de Li Po para mi travesía;
-búsquenme en Rótterdam, escríbanme
aunque no parta.
Si no salgo a esta hora será en otra;
las naves cambiarán, no mi deseo;
mi deseo está en Rótterdam:
desde aquí con la nieve lo diviso
entre sus casas.
No hay un solo camino sobre el mar
sin su contrario,
no hay maneras de estar y no estar donde se viaja.
Si mediara otra senda más simple, más humana,
saldría sin ausentarme,
la nieve me sería cálida al tacto.
En cada barco de este puerto
tengo fletado mi equipaje;
aunque me vean aquí mañana por los muelles,
estoy a bordo,
las naves cambiarán, no mi deseo;
-búsquenme en Rotterdam, escríbanme,
mi deseo tiene vuelo de gaviota
y nieve entre sus alas.
Eugenio Montejo
de “Terredad” (1878)


lunedì 29 dicembre 2014

KOSTAS KARIOTAKIS







Noi siamo cetre un poco sgangherate. Il vento, quando passa sulle corde, come catene sospese, risveglia dei versi, dei rumori dissonanti.
Noi siamo antenne un poco singolari. Come dita s'innalzano nel caos, in cima ad esse echeggia l'infinito ma ben presto cadranno giù spezzate.
Noi siamo sensazioni un po' disperse senza speranza di concentrazione. Nei nostri nervi tutto si confonde.
Ci duole il corpo, duole la memoria. Ci scacciano le cose, e la poesia è il rifugio che sempre più invidiamo.

sabato 27 dicembre 2014

IL CONFINE DI Ana Blandiana






Ana Blandiana, considerata la maggiore poetessa romena contemporanea, ha affrontato con coraggio censure e ostracismi politici fin dal suo esordio. E ha saputocoltivare un proprio territorio lirico di salvezza dalle intrusioni esterne ridando vitalità e senso ad una poesia soffocata da un drammatico contesto socioculturale.Una scrittura preservata nella purezza stilistica dall’eccesso di forma, una poesia che, come lei ha dichiarato, “In un mondo che scrive e parla così tanto, ha lo scopo di ripristinare il silenzio, la capacità di tacere. Tutto ciò che ho cercato è l’ombra delle parole. E non hanno più ombra, le parole che hanno venduto la loro anima”.

*
Il confine
Cerco il principio del male
come da bambina cercavo i margini della pioggia.
Con tutte le forze correvo per trovare
il luogo dove
sedermi a terra a contemplare
da una parte pioggia, da una parte niente pioggia.
Ma sempre la pioggia smetteva prima
che ne scoprissi i confini
e ricominciava prima
di capire fin dove è sereno.
Invano sono cresciuta.
Con tutte le forze
corro ancora per trovare il luogo
dove sedermi a terra e contemplare
la linea che separa il male dal bene.
Ma sempre il male smette prima
che ne scopra il confine
e ricomincia prima
di capire fin dove è bene.
Io cerco il principio del male
su questa terra
volta per volta
grigia e assolata.
-Ana Blandiana-

sabato 6 dicembre 2014

IN MEMORIAM di Yòrgos Chronàs






Yòrgos Chronàs è considerato fra i maggiori poeti contemporanei greci. Nasce nel ’48 al Pireo e a vent’anni circa si trasferisce ad Atene. Pubblica il primo libro nel ’73. Il secondo, l’anno dopo, glielo finanzia Mànos Chatzidàkis, che gli procura anche un breve spazio di 15 minuti alla radio nazionale, sul terzo canale. Il programma si chiama “Odòs Pànos” (via Pànos). Da allora, non si contano gli interventi nella vita culturale del paese di Chronàs, talmente tanti sono. Pubblica 20 libri fra poesia, prosa e teatro. Continua le trasmissioni radiofoniche. Fonda una rivista letteraria (Odòs Pànos) e l’omonima casa editrice. Scrive anche canzoni, circa un centinaio, musicate da Chatzidàkis e altri nomi della musica contemporanea greca. Forte e influente è la sua presenza nelle lettere del paese. Più o meno nel 1970, conosce in un caffè del Pireo Michàlis Katsaròs che gli segna la vita poetica, come egli stesso sottolinea, a tal punto da dire, in un’intervista per la ERT (la RAI greca): “Molto di quello che ho scritto è dedicato, direttamente o non, a Katsaròs; non ho problemi nel dirlo”. Lo segna nel linguaggio, scarno, diretto, piano. Ma mentre Katsaròs è anche poeta di un linguaggio diretto di denuncia, Chronàs non fa da megafono ma da regista. “Quello che c’è nei miei testi non sono io; è quello che mi gira intorno. Può darsi che però, alla fine, sia anche io.” Chronàs viene definito “poeta delle piccole cose” ma in sostanza è un trasfiguratore della realtà, che prende il via da qualsiasi piccola cosa gli giri intorno. Una sorta di “surrealista” che registra, e trascrive, il surrealismo presente nelle nostre profondità quotidiane, con una lingua che tante cose è ma non surrealista. Viene anche definito “poeta del dolore” ma mi piacerebbe sapere chi non lo è, seppure per un momento. Ma il suo è un dolore distorto nelle parole e che è sempre presente, perfino quando andiamo al chiosco a comprare una birra. Il suo linguaggio è per certi versi spiazzante, e va messo in relazione al linguaggio della tradizione poetica greca, ancora oggi in molti casi lirica. E’ piano e colloquiale ma poi sfugge di continuo nelle piccole derive oscure del nostro vissuto più intimo, personale, e quindi trasfigurato dal nostro dolore. E’ spiazzante perché non c’è mai il ricorso al poetico, al verso che si fa ricordare e intorno a cui girano interi componimenti. In Chronàs è il totale che fa il totale. Bisogna considerare il testo nel suo totale. Sono uomini sospesi, i suoi, sopra le proprie stesse macerie, e che gettano parole nei buchi neri alla ricerca di qualcosa: le parole si allungano in significati inattesi, e ci spiazzano.
In memoriam
Alla fine poteva anche non essere mai sceso dal treno
e stare là da prima di me ad aspettare qualcuno
nessuno o niente. Poteva anche essere un uccello imbalsamato
in via Pireòs o un cervo fossilizzato sopra gli scogli
– queste morti stanno dipinte dentro di noi senza ali,
senza musica, senza entrate e uscite, così restano morti
sottoterra, in tutti i tempi, sulla terra.
Alla fine potevo anche non essere io, ma un altro
arrivato da giorni alla stazione, sotto
l’orologio fermo, in attesa di un incontro
la domenica pomeriggio. Potevo anche essere la manifestazione
tradita, il disertore, l’entrata del vinto nel
ritratto della sua fama postuma, la droga.
Quel pomeriggio, trovammo il nostro volto. Non eravamo più
noi. Eravamo belli, allora. Cosa rara.
*
Come allora, suoneranno i grammofoni,
allora, quando Rita se ne andò e restammo sole
nei bordelli.
Non avevamo uomini – Nikos era appena uscito
di prigione, e Simone portava in giro i bambini in carrozzina
per i luna park di provincia
Eravamo uscite sulla porta e ci passavamo il pettine
fra i capelli
Volevamo microfoni, veli neri gettati sulle spalle,
profumi costosi per i nostri corpi.
Genni, che dovevamo fare? Il mercato si riempiva
di maschi cavalli stecchiti e noi, con le borse, chiedevamo
del pesce.
*
Oramai passeggiano nei porti
gli amori, i baci frettolosi dietro le lamiere
dentro le baracche, accanto ai bagni
Piccole stanze, grandi stanze, stanzini
e sedie
custodiscono gli amori sotto chiave
Oramai stupidi, e prolungati.
La morte degli amanti
Ieri si è spenta la sua voce con le ombre
dietro le camere dove ci incontravamo
di sabato tardi,
vivendo la mitologia dei dettagli
prima della genesi del mondo
avendo tu il ruolo di Proteo
e io un ruolo di cui non ricordo più
le parole
le frasi
gli schemi.
Solo a momenti ricordo quelle
nostre ombre sul muro, dai movimenti così conosciuti
che nemmeno le osservavamo
nemmeno le commentavamo
nemmeno le vivevamo.
Come quella musica, musica disgregativa,
musica monotona nel nostro silenzio, dissolvente
nel tempo che si scioglieva in candele da due soldi,
fatte col grasso del maiale, sopra il tavolo
venivano dall’ignoto insieme all’incenso,
bruciavano.
Non ricordo altro, tutto c’è spento con la genesi
del mondo, quel giorno che tuo padre
facendo iniezioni di calce e terra nel cortile
fabbricò la prima cifra del nostro abbecedario.
la chiave per aprire la camera
dell’incenso
e delle candele da due soldi di grasso di maiale.
Quel giorno sei venuto e mi hai trovato
afflitto.
– Poveretto, mi hai detto
i giorni vuotano cicuta
nei nostri bicchieri pieni
e io non sono Socrate
per morire tranquillamente in prigione.
Ti ho guardato quando sei caduto sul pavimento,
giallo dipinto di ocra, con un odore che non
distinguevi se era sperma di uomo o incenso.
Hai gridato
– Che almeno mi divorino i cani.
Ieri c’è stato il tuo funerale. Non ci sono andato.
Sono rimasto con la mia ombra nella camera
dove ci incontravamo tardi di sabato
bruciando candele di grasso di maiale e incenso.
Ho continuato a bere cicuta.
Ieri c’è stato il tuo funerale.
Io non ci sono andato.
*

domenica 23 novembre 2014

QUANDO TU SARAI VECCHIA William Butler Yeats







Quando tu sarai vecchia e grigia,
col capo tentennante
ed accanto al fuoco starai assonnata,
prenderai questo libro.
E lentamente lo leggerai,
ricorderai sognando
dello sguardo che i tuoi occhi ebbero allora,
delle loro profonde ombre.
Di quanti amarono la grazia felice
di quei tuoi momenti e,
d'amore falso o a volte sincero,
amarono la tua bellezza.
Ma uno solo di te amò l'anima irrequieta,
uno solo allora amò le pene del volto tuo che muta.
E tu, chinandoti verso le braci,
sarai un poco triste, in un mormorio d'Amore dirai
di come se ne volò via.....passò volando oltre il confine
di questi alti monti e per sempre poi
il suo volto nascose in una folla di stelle.

lunedì 17 novembre 2014

Bertolt Brecht Il ladro di ciliege








Una mattina presto, molto prima del canto del gallo,


mi svegliò un fischiettio e andai alla finestra.

Sul mio ciliegio – il crepuscolo empiva il giardino -

c’era seduto un giovane, con un paio di calzoni sdruciti,

e allegro coglieva le mie ciliegie. Vedendomi

mi fece cenno col capo, a due mani

passando le ciliegie dai rami alle sue tasche.
Per lungo tempo ancora, che già ero tornato a giacere nel mio letto,
lo sentii che fischiava la sua allegra canzonetta.

sabato 15 novembre 2014

Rainer Maria Rilke







  • Io temo tanto la parola degli uomini.

    Dicono tutto sempre così chiaro:
    questo si chiama cane e quello casa,
    e qui è l’inizio e là è la fine.
    A me piace sentire le cose cantare.

mercoledì 29 ottobre 2014

«La casa e il violino» / 2 di Hernán Ronsino traduzione di Giulia Zavagna


Non sono mai riuscito a scrivere una poesia. Per questo preferisco leggere le poesie di chi invece ci riesce. Leggere Zurita di Raúl Zurita, per esempio. È un libro immenso, un tomo enorme, sembra una mattone, di quelli che si usano per costruire pareti, per costruire case. Zurita dice: «Le enormi moli di roccia hanno preso il colore cenerino dell’alba e il paesaggio si interrompe bruscamente». Questo finale non mi è nuovo. E proprio per questo credo che potrebbe essere un’altra variante dell’argomento che affrontiamo oggi. L’interruzione brusca della scrittura. Mi ha sempre incuriosito la scrittura che di colpo si interrompe. I dintorni di un testo. La logica che porta a una frase che poi non si potrà sviluppare, che si vedrà, per varie ragioni, quasi sempre le stesse (malattia o suicidio), interrotta. Il precipizio che viene da fuori o da dentro. La scrittura spezzata dalla morte. È stato da poco pubblicato in Cile un libro di conversazioni tra Ilan Stavans e Raúl Zurita. Il libro si intitola Saber morir. C’è un punto in cui Zurita ricorda un passaggio della Storia del Perù di Garcilaso de la Vega: si tratta dell’esecuzione di un principe inca. Mentre un banditore legge, in spagnolo, le ragioni che giustificano la sua morte, il principe chiede a un frate di tradurgliele perché «non capisce la lingua in cui si pronunciano le ragioni della sua morte». Le ragioni della morte scritte in una lingua impossibile. In questa lingua impossibile sta anche il segreto di ogni parola interrotta.
Leopoldo_LugonesMi vengono in mente due casi di scrittura interrotta nella letteratura argentina. Leopoldo Lugones, per esempio, si suicida il 18 febbraio del 1938 sul Tigre. Ci sono molti strati di senso condensati in un suicidio. Ci sono molti fallimenti e una volontà ferma, vitale, l’esplosione finale potremmo dire, che si consuma in sé stessa. Il grande gesto positivo che è la negazione della negazione. In quell’estate del 1938 Lugones sta di fronte a un testo che non riesce a concludere. Che lo angoscia. Un testo che potrebbe essere in linea con il suo Historia de Sarmiento e con El payador. Ma Lugones non riesce a concludere la storia di colui che, secondo lui, è l’eroe dell’Argentina moderna. Negli ultimi passaggi del testo parla della grandezza di Roca. Cita Sarmiento per negare il genocidio dei popoli indigeni: «quegli indios non c’erano», dice la citazione di Sarmiento ripresa da Lugones. E poi scrive le ultime righe con una matita di grafite, seconda l’analisi che del manoscritto fa Juan Pablo Canala, per arrivare alla frase che resterà sospesa, interrotta come se una spada affilata ne avesse sventrato le estremità: «Ma non c’è nulla di irrefutabile come il saluto con cui Mitre, bisogna dirlo, lo congedò sulla Na…» La frase si interrompe e non sappiamo perché. Lugones scrisse questa frase alla locanda El Tropezón dopo aver preso il cianuro, dopo aver lasciato il foglio con il suo ultimo messaggio, dopo aver chiesto di essere svegliato verso le sei del mattino perché qualcuno, finalmente, lo trovasse dissanguato in quella stanza sul Tigre? Non lo sappiamo. Eppure inquieta. Quella parola interrotta. La parola nación. Con la maiuscola. Inquieta. Lugones non riesce a finire di scrivere la parola Nación. Ciò che sappiamo è quanto scrisse nel suo messaggio suicida: «Non riesco a concludere la Historia de Roca. Basta!»


    Saer_12-mm-e1346929297924Un altro modello di scrittura interrotta, nella letteratura argentina recente, può essere il caso di La grande di Juan José Saer. Secondo il suo editore, La grande è un progetto che Saer inizia a sviluppare nel ’99. E, secondo quanto si dice, Saer inizia a comporlo allo stesso modo in cui ha scritto il resto della sua opera, su vari taccuini. Prima, pensando la frase, tenendo a mente la condensazione. E poi mettendola in pratica. Qualcosa di simile a quanto dice Julio Premat, studioso dell’opera di Saer e curatore dei taccuini ritrovati. Lì, in quelle carte, praticamente non ci sono cancellature. La scrittura nasceva come un blocco, processato in precedenza. Simile al lavoro di un poeta. Quando si pensa alla relazione di Saer con la poesia si ricorda sempre ciò che disse qui a Santa Fe, nel suo famoso dialogo con Piglia, che poi l’Universidad del Litoral avrebbe pubblicato come libro. Alla domanda di Piglia sulla relazione tra lirica e narrazione, Saer risponde che uno dei suoi progetti era di scrivere un romanzo in versi o un romanzo poetico. Ma che di fronte a quella sfida l’apparizione della lirica si ha introducendo la poesia nella prosa. In questo modo, la prosa di Saer recupera il movimento geografico di Juanele, recupera la sua musicalità; come anche il fraseggio secco di Di Benedetto per far sì che esploda sulla pagina, che si rovesci come se la prosa fosse un fiume – apparentemente calmo – ma profondo e torrenziale all’interno. La grande è un romanzo, effettivamente, inconcluso. Ma possiamo anche pensare che, sebbene l’ultimo capitolo non fu scritto, quella frase che, forse, Saer colloca in modo provvisorio, come una linea dalla quale partire per trovare il suo mondo – quella frase nuda, come un pesce sulla riva del fiume – forse è il modo migliore di continuare a stare (stare stando) nella fitta selva. Ci sono molti incipit memorabili in Saer – e parti che si potrebbero citare a memoria: per esempio: «Altri, loro, prima, potevano» o «È l’alba e ha già gli occhi aperti». Ma non ci sono tanti finali. L’ultima frase di La grande potrebbe rappresentare un’eccezione, è una frase aperta, è un inizio, è uno dei versi migliori di Saer: «Con la pioggia, arrivò l’autunno, e con l’autunno, il tempo del vino».

    martedì 14 ottobre 2014

    PAUL ELUARD





    Paul Grindel, che adotterà il nome d'arte Éluard nel 1916 riprendendolo dalla nonna materna, nasce da Clément-Eugene Grindel, un contabile socialista e da Jeanne-Marie Cousin, una sarta per signora. Frequenta le scuole a Saint-Denis, Aulnay-sous-Bois e nel 1908 a Parigi dove nel frattempo la famiglia si è trasferita. Prosegue gli studi a Parigi fino al 1912, quando a causa di un attacco di emottisi deve entrare nel sanatorio di Clavades a Davos in Svizzera dove rimarrà per quattordici mesi.
    A Clavades incontra una giovane russa, che egli chiamerà Gala e che diventerà in seguito sua moglie, scrive versi ispirandosi al vitalismo di Whitman e alla musicalità di Verlaine che pubblica insieme ad alcune composizioni sparse su riviste oltre a due poemetti: Premiers Poèmes e Dialogues des inutiles. Nel febbraio del 1914 Paul viene dimesso dal sanatorio e quando ad agosto scoppia la guerra, è arruolato con destinazione ai servizi ausiliari. Diventa su sua richiesta fante in prima linea e nel febbraio del 1917 sposa Gala. Ammalatosi nuovamente nel maggio dello stesso anno, viene definitivamente assegnato ai servizi ausiliari.
    Nel maggio del 1918 nasce la figlia Cécile e nel maggio dell'anno seguente viene smobilitato. Risale al 1916 la raccolta di versi Le devoir che ripubblica ampliata nel 1918 con il titolo Le Devoir et l'Inquiétude e i Poèmes pour la paix. Nel 1919 partecipa alla vita del movimento dadaista e stringe rapporti di amicizia con i rappresentanti della contestazione artistica francese quali Paulhan, Aragon, Breton, Soupault e Tristan Tzara. Collabora intanto a diverse riviste d'avanguardia e dirige egli stesso la significativa rivista Provèrbe.
    Nel 1920 pubblica Les animaux et leurs hommes, les hommes et leurs animaux, nel 1921 Les nécessités de la vie et les conséquences des rêves, nel 1922 Répétitions e Les malheurs des immortels. Nel 1923 si contrappone, al dadaismo che si sta disgregando, il surrealismo ed Éluard passa, insieme ad Aragon, Péret e a Breton al nuovo movimento. L'animatore del surrealismo è André Breton e a lui Éluard dedica, nel 1924, Mourir de ne pas mourir.
    Nello stesso anno, colto da una crisi interiore, Paul abbandona improvvisamente Parigi e per sette mesi non dà notizie di sé, tanto da essere considerato morto. In realtà egli compie un lungo viaggio per mare da Marsiglia al Pacifico per fuggire alle contraddizioni che lo tormentavano. Ritorna a Parigi nell'ottobre del 1924 e presto riprende la sua attività nell'avanguardia. Continua a scrivere versi e nel 1925 pubblica 152 proverbes mis au goût du jour, in collaborazione con Péret e Au défaut du silence, con illustrazioni di Max Ernst; nel 1926 esce Capitale de la douleur e Les dessous d'une vie ou la pyramide humaine. Sempre nel 1926 aderisce al Partito comunista e con la pubblicazione di Capitale de la douleur viene riconosciuto come il "più poetico rappresentante della scuola surrealista". Da quel momento vive in modo appassionato la vita del gruppo con mostre, incontri, proteste, libri, riviste, riunioni surrealiste.
    Nella seconda metà del 1928 Paul ha una ricaduta del suo male ed è ricoverato per diversi mesi in un sanatorio dei Grigioni ma appena è dimesso continua, a fianco alla sua militanza surrealista, l'opera di poeta pubblicando, nel 1929 Défense de savoir con un frontespizio di Giorgio De Chirico e L'amour la poésie. In questo periodo la sua vita con Gala attraversa un momento di profonda crisi e nel dicembre del 1929 incontra Maria Benz, figlia di saltimbanchi, detta "Nusch", che diventa la sua nuova compagna e che lo seguirà fino a quando morirà improvvisamente nel 1946.
    Gli anni che vanno dal 1930 al 1938 vedono Éluard impegnato contro la repressione della società mentre si fa sempre più vicina la violenza della dittatura fascista che porta all'avvento di Hitler in Germania e alla vittoria di Franco in Spagna. Il poeta è sempre presente nell'offrire contributi non solamente poetici ma umani e politici. In questo periodo egli si allontana dal partito anche se non partecipa integralmente alle critiche che i surrealisti, ormai su una linea trotzkista, muovono all'Unione Sovietica e non sottoscrive il manifesto di protesta surrealista per il primo processo di epurazione politica di Mosca nel 1936 e non aderisce alla Federazione internazionale dell'arte rivoluzionaria fondata da Breton.
    Pubblica in questi anni molti libri tra i quali A toute épreuve nel 1930, Le vie immédiate nel 1932, La rose pubblique nel 1934, Facile nel 1935, Les yeux fertiles nel 1936, Les mains libres nel 1937, Cours naturel nel 1938. Nel settembre del 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Éluard viene richiamato come tenente per prestare servizio nell'intendenza ma nel giugno del 1940, data che segna il crollo della Francia davanti a Hitler, egli viene smobilitato e può rientrare a Parigi.
    La tomba di Éluard al Père Lachaise
    Nel 1942 chiede nuovamente l'iscrizione al partito comunista francese (P.C.F.) e fa parte del movimento clandestino, contrassegnando il suo contributo alla resistenza con edizioni di libri di versi e di giornali alla macchia e trasmissioni radiofoniche clandestine. È del 1942 la sua famosa poesia Liberté. Nel febbraio del 1944 Éluard rientra a Parigi ancora occupata dai tedeschi e il 25 agosto dello stesso anno avviene la liberazione. In quello stesso anno la giovane casa editrice Seghers gli dedica una collana di libri, Poètes d'aujourd'hui.
    Risalgono a questi anni Chanson complète e Mèdieuses nel 1939, Le livre ouvert. I e II (1940 e 1941), Poèsiìe et vérité nel 1942, Au rendez-vous allemaid (1942-1945), Le lit table nel 1944. Dopo la liberazione e alla fine del conflitto, Éluard si impegna con il comunismo e compie numerosi viaggi nei paesi dell'Europa orientale, appoggia in Grecia la lotta per la liberazione e in Italia prende parte attivamente, nel 1946, alla campagna per l'avvento della Repubblica. Il 28 novembre, Éluard, che si trova in Svizzera, riceve la notizia della morte improvvisa di Nusch e ne rimane profondamente scosso. Solamente alla fine dell'anno ricomincia a riprendersi e si butta più che mai nell'impegno politico e nella poesia.
    Nel 1949, in occasione della sua permanenza in Messico, dove partecipa al "Convegno internazionale per la pace" incontra Dominique Lemor che sposa nel 1951. Ma nei primi giorni del settembre 1952, Éluard ha un improvviso attacco di angina pectoris e il 18 novembre dello stesso anno, in seguito ad un nuovo attacco, muore. Viene sepolto nel cimitero parigino di Père Lachaise. Sono di questi ultimi anni molte opere tra le quali, Poésie ininterrompue del 1946 (la seconda parte viene pubblicata postuma, nel 1953), Le dur désir de durer sempre nel 1946, Poèmes politique nel 1948, Une leçon de morale nel 1949, Tout dire e Le Phénix nel 1951.



    QUEI TUOI CAPELLI
    Quei tuoi capelli d'arance nel vuoto del mondo,
    Nel vuoto dei vetri grevi di silenzio e
    D'ombra dove con nude mani cerco i tuoi riflessi,
    Chimerica è la forma del tuo cuore
    E al mio desiderio perduto il tuo amore somiglia.
    O sospiri di ambra, sogni, sguardi.
    Ma non sempre sei stata con me, tu. La memoria
    Mia oscurata è ancora d'averti vista giungere
    E sparire. Ha parole il tempo, come l'amore.






    mercoledì 17 settembre 2014

    GAZZELLA DELL'AMORE IMPREVISTO





    Nessuno comprendeva il profumo


    dell’oscura magnolia del tuo ventre.

    Nessuno sapeva che facevi martire

    un colibrì d’amore tra i denti.
    Mille cavallini persiani dormivano


    nella piazza con la luna della tua fronte,

    mentre io tenevo per quattro notti

    la tua vita, nemica della neve.
    Tra gesso e gelsomini, il tuo sguardo


    era un pallido ramo di sementi.

    Cercai nel mio cuore, per dartele,

    le lettere d’avorio che dicono sempre,
    sempre, sempre: giardino della mia agonia,


    il tuo corpo per sempre fuggitivo

    il sangue delle tue vene nella mia bocca,

    la tua bocca senza luce ormai per la mia morte.
    udio Rendina)
    da “Divano del Tamarit”, 1927/1934, in “Federico García Lorca, Tutte le poesie e tutto il teatro”, Newton Compton, 2009
    ***
    Gazela del amore imprevisto Federico García Lorca
    (Traduzione di Cla
    Nadie comprendía el perfume 


    de la oscura magnolia de tu vientre. 

    Nadie sabía que martirizabas 

    un colibrí de amor entre los dientes.
    Mil caballitos persas se dormían 


    en la plaza con luna de tu frente, 

    mientras que yo enlazaba cuatro noches 

    tu cintura, enemiga de la nieve.
    Entre yeso y jazmines, tu mirada 


    era un pálido ramo de simientes. 

    Yo busqué, para darte, por mi pecho 

    las letras de marfil que dicen siempre,
    siempre, siempre: jardín de mi agonía, 


    tu cuerpo fugitivo para siempre, 

    la sangre de tus venas en mi boca, 

    tu boca ya sin luz para mi muerte.



    Federico García Lorca
    de “Federico García Lorca, Diván del Tamarit”, Buenos Aires, Losada, 1940


    giovedì 28 agosto 2014

    CESARE PAVESE

    Cesare Pavese, animo sensibilissimo, poeta di grande qualità e intensità espressiva della Letteratura italiana del primo ’900, più noto per i suoi libri che per le sue poesie.
    Le sue poesie più conosciute sono le cosiddette ‘Poesie del disamore‘ vale a dire dell’amore non corrisposto, un autentico baratro, il triste destino di un uomo che ha cercato disperatamente l’amore, e chissà perché non l’ha mai ricevuto.Tormentato dalla cocente delusione amorosa vissuta con un'avvenente aspirante attrice americana alla quale dedicò i celebri versi di "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", oppresso da un malessere esistenziale che definiva "il vizio assurdo" dal quale non si era mai liberato, pone fine alla sua vita Il 27 agosto 1950 in un albergo di Torino ingerendo più di dieci bustine di sonnifero. Su un foglietto aveva scritto: "Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti. Ho cercato me stesso."

    ...Nell'ebbrezza disperata
    dell'amore di tutto il tuo corpo
    e della tua anima perduta
    vorrei sconvolgere e bruciarmi l'anima
    sperdere quest'orrore
    che mi strappa gli urli
    e me li soffoca in gola
    bruciarlo annichilirlo in un attimo
    e stringermi a te
    senza ritegno più
    ciecamente, febbrile,
    schiantandoti d'amore.
    Poi morire, morire,
    con te.


    (Cesare Pavese, Vorrei)










    F. PESSOA "Mi è successa una poesia

    F. PESSOA

    "Mi è successa una poesia. La mia maniera di scrivere fondamentale è molto prossima a questo "succedere". La poesia mi appare già fatta, emerge, è offerta. Come un dettato che ascolto e annoto. E' possibile che questa maniera sia in parte legata al fatto che, nella mia infanzia, molto prima di saper leggere, mi avessero insegnato a imparare a memoria le poesie. Ho incontrato la poesia prima di sapere che esiste la letteratura. Pensavo che le poesie non fossero scritte, che esistessero di per sè, da sole, che fossero un qualche elemento del mondo naturale, che se ne stessero sospese, che fossero immanenti.








    FEDERICO GARCIA LORCA - "Memento" da Canti gitani e andalusi)





    Quando sarà che muoia,


    seppellitemi con la mia chitarra

    sotto la sabbia.


    Quando sarà che muoia,
    tra gli aranci
    e la menta.
    Quando sarà che muoia,
    seppellitemi, se volete,
    in una banderuola.

    Quando sarà che muoia!







    domenica 17 agosto 2014

    - TACERE - Gerardo Diego Cendoya (poeta e scrittore spagnolo, 1896-1987)




    Tacere, tacere. Non taccio perché voglio,

    taccio perché la pena mi si impone,
    affinché la parola non detronizzi
    il mio silenzio più autentico e profondo.

    Regna il silenzio, l'artefice austero
    che fra due musiche compone un ponte,
    affinché il labbro ammutolito intoni
    verso l'interno, fino all'abisso, il salmo intiero.

    Io vorrei aprire il bordo del sigillo,
    svincolare gli uccelli dell'accordo
    per dare loro cielo in un volante arpeggio,

    se non temessi che lasciando andare il mio ramo
    invece del dolce cantico ardente
    suonasse la parola che non ama.