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giovedì 28 agosto 2014

CESARE PAVESE

Cesare Pavese, animo sensibilissimo, poeta di grande qualità e intensità espressiva della Letteratura italiana del primo ’900, più noto per i suoi libri che per le sue poesie.
Le sue poesie più conosciute sono le cosiddette ‘Poesie del disamore‘ vale a dire dell’amore non corrisposto, un autentico baratro, il triste destino di un uomo che ha cercato disperatamente l’amore, e chissà perché non l’ha mai ricevuto.Tormentato dalla cocente delusione amorosa vissuta con un'avvenente aspirante attrice americana alla quale dedicò i celebri versi di "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", oppresso da un malessere esistenziale che definiva "il vizio assurdo" dal quale non si era mai liberato, pone fine alla sua vita Il 27 agosto 1950 in un albergo di Torino ingerendo più di dieci bustine di sonnifero. Su un foglietto aveva scritto: "Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti. Ho cercato me stesso."

...Nell'ebbrezza disperata
dell'amore di tutto il tuo corpo
e della tua anima perduta
vorrei sconvolgere e bruciarmi l'anima
sperdere quest'orrore
che mi strappa gli urli
e me li soffoca in gola
bruciarlo annichilirlo in un attimo
e stringermi a te
senza ritegno più
ciecamente, febbrile,
schiantandoti d'amore.
Poi morire, morire,
con te.


(Cesare Pavese, Vorrei)










F. PESSOA "Mi è successa una poesia

F. PESSOA

"Mi è successa una poesia. La mia maniera di scrivere fondamentale è molto prossima a questo "succedere". La poesia mi appare già fatta, emerge, è offerta. Come un dettato che ascolto e annoto. E' possibile che questa maniera sia in parte legata al fatto che, nella mia infanzia, molto prima di saper leggere, mi avessero insegnato a imparare a memoria le poesie. Ho incontrato la poesia prima di sapere che esiste la letteratura. Pensavo che le poesie non fossero scritte, che esistessero di per sè, da sole, che fossero un qualche elemento del mondo naturale, che se ne stessero sospese, che fossero immanenti.








FEDERICO GARCIA LORCA - "Memento" da Canti gitani e andalusi)





Quando sarà che muoia,


seppellitemi con la mia chitarra

sotto la sabbia.


Quando sarà che muoia,
tra gli aranci
e la menta.
Quando sarà che muoia,
seppellitemi, se volete,
in una banderuola.

Quando sarà che muoia!







domenica 17 agosto 2014

- TACERE - Gerardo Diego Cendoya (poeta e scrittore spagnolo, 1896-1987)




Tacere, tacere. Non taccio perché voglio,

taccio perché la pena mi si impone,
affinché la parola non detronizzi
il mio silenzio più autentico e profondo.

Regna il silenzio, l'artefice austero
che fra due musiche compone un ponte,
affinché il labbro ammutolito intoni
verso l'interno, fino all'abisso, il salmo intiero.

Io vorrei aprire il bordo del sigillo,
svincolare gli uccelli dell'accordo
per dare loro cielo in un volante arpeggio,

se non temessi che lasciando andare il mio ramo
invece del dolce cantico ardente
suonasse la parola che non ama.





giovedì 14 agosto 2014

ANNA ACHMATOVA

Anna Achmàtova è uno di quei poeti che semplicemente “avvengono”, che sbarcano nel mondo con uno stile già costruito ed una loro sensibilità unica. Arrivò attrezzata di tutto punto e non somigliò mai a nessuno.
(Premio Nobel Iosif Brodskij)

Anna Andreevna Achmatova pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko (Bol’soj Fontan, 11 giugno 1889 – Mosca, 5 marzo 1966) è stata una poetessa russa; non amava l’appellativo di poetessa, perciò preferiva farsi definire poeta, al maschile.

La sua poesia è caratterizzata da una profonda ed intima delicatezza, soprattutto nelle sue prime raccolte. La sera e Il rosario del 1912 e 1914. le successive sono ispirate alla sua esperienza di vita, a volte cadenzate come preghiere. Anno Domini MCMXXI del 1922. A seguito della fucilazione del primo marito, Nikolaj, nel 1921, seguì una lunga pausa indotta dalla censura, che la poetessa ruppe nel 1940 con Il salice e Da sei libri, raccolte dalle quali emerge un dolore derivato dalla costante ricerca della bontà degli uomini. Il figlio Lev fu imprigionato fra il 1935 e il 1940 nel periodo delle grandi purghe staliniane.
Espulsa dall’Unione degli Scrittori Sovietici nel 1946 con l’accusa di estetismo e di disimpegno politico , riuscì tuttavia ad essere riabilitata nel 1955, pubblicando nel 1962 un’opera alla quale lavorava già dal 1942, il Poema senza eroe, un nostalgico ricordo del passato russo, rielaborato attraverso la drammaticità che la nuova visione della Storia comporta, e attraverso una trasfigurazione dello Spazio e del Tempo in una concezione di puro fine.
Sulla sua poetica ebbe molta influenza la conoscenza delle opere di Dante Alighieri, come anche testimonia il filosofo Vladimir Kantor: «Quando chiesero ad Anna Achmatova, la matriarca della poesia russa, “Lei ha letto Dante?”, con il suo tono da grande regina della poesia rispose: “Non faccio altro che leggere Dante”»

Anna Achmatova si spegne a Domodédovo, nei dintorni di Mosca, il 5 marzo1966. Dopo quasi ottant’anni di lunga vita, prima della fine di quel secolo che, ancora incompiuto, l’ha vista protagonista sofferente del tempo e della storia. Proprio perché come lei scrisse «le date del calendario non han-
no significato».
(Lucia Gorlani Gardoni)

Alcuni dei suoi versi stupendi:

Luminoso e lieto
domani sarà il mattino.
Questa vita è stupenda,
sii dunque saggio cuore.
Tu sei prostrato, batti
più sordo, più a rilento…
Sai, ho letto
che le anime sono immortali.

இܓ

Ho smesso di sorridere,
le labbra sono gelate,
ad una sola speranza
segue più di una canzone.
Senza colpa cederò il canto
al riso e alla profanazione,
ché al colmo del dolore
per l’anima è il silenzio
d’amore.

இܓ

Ah, non avevo chiuso la porta,
le candele non avevo acceso,
non sai come, stanca,
non mi risolvevo a coricarmi.

Guardare come si spengono le macchie
d’abeti nel buio del crepuscolo,
inebriandomi al suono d’una voce
che somiglia alla tua.
E sapere che tutto è perduto,
che la vita è un maledetto inferno!
Oh, io ero sicura
che saresti tornato.
Anna Achmatova








WALT WITHMAN - O Capitano! Mio Capitano!



(Da: «In memoria del Presidente Lincoln»)

O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato,
la nave ha superato ogni ostacolo, l'ambìto premio è conquistato,
vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo esulta,
occhi seguono l'invitto scafo, la nave arcigna e intrepida;
ma o cuore! Cuore! Cuore!
O gocce rosse di sangue,
là sul ponte dove giace il Capitano,
caduto, gelido, morto.

O Capitano! Mio Capitano! Risorgi, odi le campane;
risorgo - per te è issata la bandiera - per te squillano le trombe,
per te fiori e ghirlande ornate di nastri - per te le coste affollate,
te invoca la massa ondeggiante, a te volgono i volti ansiosi;
ecco Capitano! O amato padre!
Questo braccio sotto il tuo capo!
E' solo un sogno che sul ponte
sei caduto, gelido, morto.

Non risponde il mio Capitano, le sue labbra sono pallide e immobili,
non sente il padre il mio braccio, non ha più energia né volontà,
la nave è all'ancora sana e salva, il suo viaggio concluso, finito,
la nave vittoriosa è tornata dal viaggio tremendo, la meta è raggiunta;
esultate coste, suonate campane!
Mentre io con funebre passo
Percorro il ponte dove giace il mio Capitano,
caduto, gelido, morto.








BERTOLD BRECHT - Piaceri


Il primo sguardo dalla finestra al mattino

il vecchio libro ritrovato
volti entusiasti
neve, il mutare delle stagioni
il giornale
il cane
la dialettica
fare la doccia, nuotare
musica antica
scarpe comode
capire
musica moderna
scrivere, piantare
viaggiare
cantare
essere gentili.





Bertolt Brecht






martedì 5 agosto 2014

lLA GUARDAVO...

La guardavo, dapprima con quello sguardo che non è la voce degli occhi, ma alla finestra del quale s'affacciano tutti i sensi, ansiosi e stupefatti, lo sguardo che vorrebbe toccare, catturare, portare via con sè il corpo guardato e l'anima insieme.

Marcel Proust - La strada di Swann









CRESLAM MILOSZ



Si può fare poesia con ciò che non è poesia? Ma cosa non è poesia? Proprio l’apparente impoeticità – tratto poi comune tanto a Carver come a Szymborska – sarà la caratteristica capace di riavvicinare il lettore comune alla poesia, riconciliando vita e letteratura attraverso versi scritti «di rado e controvoglia». Perché nell’uomo abitano non solo viscere, ma pure spiriti. Così come lo abitano gesti del passato e del futuro. Infinite possibilità che si rincorrono e rinnovano da secoli. L’irrisoluta precarietà che abita nell’uomo non è destinata a spegnersi nella cenere, ma a cercare costantemente quel «compimento» di cui l’arte – e tutte le opere dell’uomo – non sono che una approssimazione, come scrive Milosz nell’inedita Cieli (già riportata QUI). Ma è con un’altra poesia che voglio concludere: Tarda maturità, una delle ultimissime composizioni dell’autore che speriamo – in occasione di questo anniversario – di vedere presto raccolta in volume:

Non subito
perché solo attorno ai novanta
si è aperta dentro di me la porta
e sono entrato nella chiarezza del mattino.
Sentivo allontanarsi da me una dopo l’altra
come fossero ladri le mie vite anteriori
con il loro tormento. Apparivano,
concessi al mio cesello, paesi, città, giardini,
golfi di mare, per venire descrittin9
meglio di tutti. Non ero
separato dagli uomini, ci univano
rimpianto e pietà, e dicevo:
Abbiamo dimenticato che siamo tutti
figli di un re, poiché veniamo da dove ancora
non c’era divisione tra il sì e il no,
né divisione tra c’è, ci sarà, c’è stato.
Siamo scontenti e facciamo uso
cento volte di meno del dono
che abbiamo ricevuto per il nostro lungo
viaggio. Atti di ieri e di secoli fa
– il colpo di una spada, il dipingerci
le ciglia davanti a uno specchio di lucido
metallo, lo spago mortale di un moschetto,
lo schianto di una caravella sugli scogli –
abitano dentro di noi e aspettano
il loro compimento. Ho sempre
saputo che sarei stato il lavoratore
di una vigna così come tutti gli uomini
che vivono il mio tempo, consapevoli
di ciò oppure inconsapevoli.

(traduzione di Giovanni Panfilio. Questo articolo è comparso su ZENIT 24/05/2011)