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venerdì 13 giugno 2014

PARTE DEL SAGGIO DI T.S. ELIOT SU MARIANNE MOORE



T.S. Eliot/Marianne Moore: è possibile prevedere la gloria futura di un poeta?
 
Non è molto quello che sap­piamo circa il valore dell’opera dei nostri con­tem­po­ra­nei; anzi, è ben poco, quasi quanto sap­piamo del valore della nostra stessa opera. Vi si pos­sono tro­vare qua­lità che esi­stono sol­tanto per la sen­si­bi­lità con­tem­po­ra­nea, così come vi si pos­sono nascon­dere virtù che diver­ranno evi­denti sol­tanto col tempo. Quale posto le spet­terà quando noi tutti saremo scrit­tori defunti, non pos­siamo dirlo con alcuna approssimazione.
Se pro­prio si deve par­lare dei con­tem­po­ra­nei, è quindi impor­tante sta­bi­lire prima di tutto che cosa pos­siamo affer­mare con con­vin­zione e che cosa deve restare aperto al dub­bio e alla con­get­tura. L’ultima cosa che pos­siamo giu­di­care è cer­ta­mente la loro “gran­dezza”, o piut­to­sto la loro rela­tiva eccel­lenza o medio­crità in rap­porto al con­cetto di “gran­dezza”. Nel con­cetto di gran­dezza, infatti, sono impli­citi signi­fi­cati morali e sociali che pos­sono essere per­ce­piti sol­tanto da una pro­spet­tiva più remota e dei quali si può forse dire addi­rit­tura che sor­gono nel corso della sto­ria. Non si può pre­dire quale sorte avrà una certa poe­sia, quale azione eser­ci­terà sulle gene­ra­zioni suc­ces­sive. E tut­ta­via pos­siamo cre­dere, con un certo fon­da­mento, che esi­sta qual­che cosa, una qua­lità, che può essere rico­no­sciuta da un pic­colo numero, sol­tanto da un pic­colo numero, di let­tori con­tem­po­ra­nei; ed è la genunità.
Dico di pro­po­sito “sol­tanto un pic­colo numero”, per­ché sem­bra pro­ba­bile che, quando un poeta rie­sce a con­qui­stare in vita un pub­blico nume­roso, una por­zione sem­pre cre­scente di ammi­ra­tori lo ammi­rerà per ragioni estra­nee, per ragioni non sostan­ziali. Non è detto che siano cat­tive ragioni, ma allora la noto­rietà del poeta sarà sem­pli­ce­mente quella di un sim­bolo, dovuta alla sua capa­cità di com­piere sui let­tori un’azione sti­mo­lante, o con­so­lante, in ragione del par­ti­co­lare rap­porto che lo lega ad essi nel tempo. Quesa azione sui let­tori con­tem­po­ra­nei può essere a volte il risul­tato, giu­sto e legit­timo, di una grande poe­sia; ma è anche acca­duto, assai spesso, che fosse il risul­tato di una poe­sia effimera.
Non sem­bra molto impor­tante il fatto che il poeta debba lot­tare con un’epoca distratta e paga di sé, e quindi ostile a nuove forme di poe­sia, oppure con un’epoca come l’attuale, incerta, dif­fi­dente di se stessa e avida di nuove forme che le diano un bla­sone e il rispetto di se stessa. Per molti let­tori moderni ogni novità for­male, per quanto epi­der­mica, è la prova, o l’equivalente, di una sen­si­bi­lità nuova; e se poi la sen­si­bi­lità è fon­da­men­tal­mente ottusa e doz­zi­nale, tanto meglio; poi­ché non vi è strada più rapida per arri­vare a una popo­la­rità imme­diata, anche se pas­seg­gera, che quella di ser­vire merci stan­tie in con­fe­zioni nuove. Vi sono alcune prove che per­met­tono di accer­tare la novità e la genui­nità di un pro­dotto, e una di que­ste –è una prova pura­mente nega­tiva, d’accordo– si può ese­guire osser­vando la rea­zione dei cosid­detti “amanti della poe­sia”; se il pro­dotto suscita la loro avver­sione, è pro­ba­bile che ci tro­viamo davanti a una poe­sia vera­mente nuova e genuina.
Mi rendo conto che i pre­giu­dizi mi indu­cono a non con­ce­dere tutta la mia stima a certi autori, nei quali vedo dei nemici pub­blici piut­to­sto che dei sog­getti sui quali eser­ci­tare la cri­tica; e oso aggiun­gere che un altro pre­giu­di­zio, di diversa natura, mi spinge a con­ce­dere un con­senso acri­tico ad altri scrit­tori. Può anche darsi che io ammiri gli autori giu­sti per le ragioni sba­gliate. Ma ho più fidu­cia nella mia stima per gli autori che ammiro, che nella mia disi­stima per gli autori che mi lasciano freddo o mi esa­spe­rano. E quando affermo che tra le qua­lità rico­no­sci­bili in un con­tem­po­ra­neo quella che io chiamo genui­nità è più impor­tante della gran­dezza, fac­cio una distin­zione tra la fun­zione dello scrit­tore da vivo e la sua fun­zione da morto. Da vivo il poeta con­ti­nua quella bat­ta­glia per la difesa di una lin­gua viva, per con­ser­vare la forza e la sot­ti­gliezza della lin­gua, per la sal­vezza di una certa sen­si­bi­lità, che deve essere soste­nuta in ogni gene­ra­zione; da morto, for­ni­sce modelli per coloro che dopo di lui ripren­dono la bat­ta­glia. Marianne Moore è, credo, tra quei pochi che, nella mia gene­ra­zione, hanno reso qual­che ser­vi­gio alla lingua (…)
(…) devo dire che Marianne Moore ha tenuto conto della lezione di Ezra Pound: che la poe­sia dev’essere scritta con la stessa ele­ganza della prosa. Si direbbe che la Moore abbia immerso il suo spi­rito nelle per­fe­zioni della prosa; nella pre­ci­sione della prosa, piut­to­sto che nel suo splen­dore; e che abbia tro­vato, per vie auto­nome, il suo ritmo, la sua poe­sia, il suo modo di pesare e apprez­zare la parola singola.
Il primo aspetto per il quale la poe­sia di Marianne Moore è desti­nata a col­pire il let­tore è quello del minu­zioso par­ti­co­lare piut­to­sto che dell’unità emo­tiva. Il gusto dell’osservazione minuta, della ricerca di parole esatte per espri­mere certe espe­rienze dell’occhio può per­sino distrarre l’attenzione del let­tore. Le minu­zie pos­sono addi­rit­tura irri­tare i disat­tenti o destare in essi sol­tanto lo stu­pore com­pia­ciuto che si prova davanti a una palla d’avorio che con­tenga altre undici palle, davanti al veliero rico­struito in tutti i par­ti­co­lari den­tro una bot­ti­glia, o danti allo sche­le­tro del pesce-crocifisso. Lo smar­ri­mento che nasce dal ten­ta­tivo di seguire un occhio così acuto, un pro­cesso d’associazione così agile e rapido può pro­durre l’effetto di certa poe­sia “meta­fi­sica”. Al let­tore mode­ra­ta­mente intel­let­tuale le poe­sie pos­sono appa­rire eser­ci­ta­zioni intel­let­tuali, e sol­tanto chi abbia un’intelligenza capace di rapidi e facili movi­menti ne coglierà subito il valore emotivo.
Ma il par­ti­co­lare è sem­pre al ser­vi­zio dell’insieme. Le simi­li­tu­dini hanno una ragione e uno scopo; e si veda il mitile che “si apre e si chiude come fosse un ven­ta­glio ferito” (dove ferito ha un’ambiguità ben degna dell’attenzione di un cri­tico come Wil­liam Emp­son), o le onde “peren­to­rie come le squame di un pesce”. Esse ci fanno vedere l’oggetto più chia­ra­mente, anche quando non com­pren­diamo subito per­ché la nostra atten­zione sia stata indi­riz­zata verso quell’oggetto, e anche quando non ne affer­riamo subito l’associazione con una serie di altri oggetti. Così nella sua diver­tita e affet­tuosa atten­zione per gli ani­mali –dal gatto dome­stico e dal mulo fino alle più eso­ti­che e biz­zarre dei tropici-, Marianne Moore rie­sce di colpo a get­tarci in un incon­sueto stato di con­sa­pe­vo­lezza, di farci per­ce­pire incre­di­bili modelli visivi gra­zie a stru­menti che hanno quasi il fascino pro­prio d’un micro­sco­pio d’alta potenza.
Si potrebbe defi­nire come “descrit­tiva”, piut­to­sto che “lirica” o “dram­ma­tica”, la poe­sia di Marianne Moore, o la mag­gior parte di essa. Si crede gene­ral­mente che la poe­sia descrit­tiva sia legata a un certo periodo, e quindi con­dan­nata a un rapido tra­monto; e invece essa è uno dei modi per­ma­nenti d’espressione. Nel secolo diciot­te­simo –o, se si pre­fe­ri­sce, nel periodo che com­prende Copper’s Hill, Win­sdor Forest ed Elegy di Gray– la descri­zione della scena è il punto di par­tenza per rifles­sioni su que­sto quel tema. La poe­sia del roman­ti­ci­smo, dal peg­gior Byron al miglior Word­sworth, oscilla tra rifles­sione ed evo­ca­zione; ma la descri­zione, il qua­dro messo dinanzi al let­tore, risponde sem­pre allo stesso scopo.
Il fine dell’ “ima­gi­smo”, per quanto ne capi­sco, o per quanto si possa par­lare di un fine, era quello di pro­muo­vere una par­ti­co­lare con­cen­tra­zione su un dato visivo per poi met­tere in movi­mento una suc­ces­sione sem­pre più ampia di sen­sa­zioni con­cen­tri­che. Alcune poe­sie di Marianne Moore –per esem­pio, quelle che riguar­dano ani­mali o uccelli– hanno un vastis­simo spet­tro di asso­cia­zioni. Sarebbe dif­fi­cile dire quale sia il “soggetto-tema” di una poe­sia come Il ger­boa. Per uno spi­rito così agile, e per una sen­si­bi­lità così reti­cente, il sog­getto meno impor­tante, com’è appunto un gra­zioso ani­ma­letto sal­tel­lante che ha il colore della sab­bia, può essere il mezzo migliore per libe­rare le emo­zioni più pro­fonde. Sol­tanto il “let­te­ra­li­sta pedante” può giu­di­care banale il soggetto-tema: la bana­lità è den­tro di lui. Ognuno di noi deve sce­gliere quel qual­siasi soggetto-tema che gli offra il mezzo per la libe­ra­zione più effi­cace e più segreta: e que­sta è una fac­cenda del tutto per­so­nale.





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