T.S. Eliot/Marianne Moore: è possibile prevedere la gloria futura di un poeta?
Non è molto quello che sappiamo circa il valore dell’opera dei nostri contemporanei; anzi, è ben poco, quasi quanto sappiamo del valore della nostra stessa opera. Vi si possono trovare qualità che esistono soltanto per la sensibilità contemporanea, così come vi si possono nascondere virtù che diverranno evidenti soltanto col tempo. Quale posto le spetterà quando noi tutti saremo scrittori defunti, non possiamo dirlo con alcuna approssimazione.
Se proprio si deve parlare dei contemporanei, è quindi importante stabilire prima di tutto che cosa possiamo affermare con convinzione e che cosa deve restare aperto al dubbio e alla congettura. L’ultima cosa che possiamo giudicare è certamente la loro “grandezza”, o piuttosto la loro relativa eccellenza o mediocrità in rapporto al concetto di “grandezza”. Nel concetto di grandezza, infatti, sono impliciti significati morali e sociali che possono essere percepiti soltanto da una prospettiva più remota e dei quali si può forse dire addirittura che sorgono nel corso della storia. Non si può predire quale sorte avrà una certa poesia, quale azione eserciterà sulle generazioni successive. E tuttavia possiamo credere, con un certo fondamento, che esista qualche cosa, una qualità, che può essere riconosciuta da un piccolo numero, soltanto da un piccolo numero, di lettori contemporanei; ed è la genunità.
Dico di proposito “soltanto un piccolo numero”, perché sembra probabile che, quando un poeta riesce a conquistare in vita un pubblico numeroso, una porzione sempre crescente di ammiratori lo ammirerà per ragioni estranee, per ragioni non sostanziali. Non è detto che siano cattive ragioni, ma allora la notorietà del poeta sarà semplicemente quella di un simbolo, dovuta alla sua capacità di compiere sui lettori un’azione stimolante, o consolante, in ragione del particolare rapporto che lo lega ad essi nel tempo. Quesa azione sui lettori contemporanei può essere a volte il risultato, giusto e legittimo, di una grande poesia; ma è anche accaduto, assai spesso, che fosse il risultato di una poesia effimera.
Non sembra molto importante il fatto che il poeta debba lottare con un’epoca distratta e paga di sé, e quindi ostile a nuove forme di poesia, oppure con un’epoca come l’attuale, incerta, diffidente di se stessa e avida di nuove forme che le diano un blasone e il rispetto di se stessa. Per molti lettori moderni ogni novità formale, per quanto epidermica, è la prova, o l’equivalente, di una sensibilità nuova; e se poi la sensibilità è fondamentalmente ottusa e dozzinale, tanto meglio; poiché non vi è strada più rapida per arrivare a una popolarità immediata, anche se passeggera, che quella di servire merci stantie in confezioni nuove. Vi sono alcune prove che permettono di accertare la novità e la genuinità di un prodotto, e una di queste –è una prova puramente negativa, d’accordo– si può eseguire osservando la reazione dei cosiddetti “amanti della poesia”; se il prodotto suscita la loro avversione, è probabile che ci troviamo davanti a una poesia veramente nuova e genuina.
Mi rendo conto che i pregiudizi mi inducono a non concedere tutta la mia stima a certi autori, nei quali vedo dei nemici pubblici piuttosto che dei soggetti sui quali esercitare la critica; e oso aggiungere che un altro pregiudizio, di diversa natura, mi spinge a concedere un consenso acritico ad altri scrittori. Può anche darsi che io ammiri gli autori giusti per le ragioni sbagliate. Ma ho più fiducia nella mia stima per gli autori che ammiro, che nella mia disistima per gli autori che mi lasciano freddo o mi esasperano. E quando affermo che tra le qualità riconoscibili in un contemporaneo quella che io chiamo genuinità è più importante della grandezza, faccio una distinzione tra la funzione dello scrittore da vivo e la sua funzione da morto. Da vivo il poeta continua quella battaglia per la difesa di una lingua viva, per conservare la forza e la sottigliezza della lingua, per la salvezza di una certa sensibilità, che deve essere sostenuta in ogni generazione; da morto, fornisce modelli per coloro che dopo di lui riprendono la battaglia. Marianne Moore è, credo, tra quei pochi che, nella mia generazione, hanno reso qualche servigio alla lingua (…)
(…) devo dire che Marianne Moore ha tenuto conto della lezione di Ezra Pound: che la poesia dev’essere scritta con la stessa eleganza della prosa. Si direbbe che la Moore abbia immerso il suo spirito nelle perfezioni della prosa; nella precisione della prosa, piuttosto che nel suo splendore; e che abbia trovato, per vie autonome, il suo ritmo, la sua poesia, il suo modo di pesare e apprezzare la parola singola.
Il primo aspetto per il quale la poesia di Marianne Moore è destinata a colpire il lettore è quello del minuzioso particolare piuttosto che dell’unità emotiva. Il gusto dell’osservazione minuta, della ricerca di parole esatte per esprimere certe esperienze dell’occhio può persino distrarre l’attenzione del lettore. Le minuzie possono addirittura irritare i disattenti o destare in essi soltanto lo stupore compiaciuto che si prova davanti a una palla d’avorio che contenga altre undici palle, davanti al veliero ricostruito in tutti i particolari dentro una bottiglia, o danti allo scheletro del pesce-crocifisso. Lo smarrimento che nasce dal tentativo di seguire un occhio così acuto, un processo d’associazione così agile e rapido può produrre l’effetto di certa poesia “metafisica”. Al lettore moderatamente intellettuale le poesie possono apparire esercitazioni intellettuali, e soltanto chi abbia un’intelligenza capace di rapidi e facili movimenti ne coglierà subito il valore emotivo.
Ma il particolare è sempre al servizio dell’insieme. Le similitudini hanno una ragione e uno scopo; e si veda il mitile che “si apre e si chiude come fosse un ventaglio ferito” (dove ferito ha un’ambiguità ben degna dell’attenzione di un critico come William Empson), o le onde “perentorie come le squame di un pesce”. Esse ci fanno vedere l’oggetto più chiaramente, anche quando non comprendiamo subito perché la nostra attenzione sia stata indirizzata verso quell’oggetto, e anche quando non ne afferriamo subito l’associazione con una serie di altri oggetti. Così nella sua divertita e affettuosa attenzione per gli animali –dal gatto domestico e dal mulo fino alle più esotiche e bizzarre dei tropici-, Marianne Moore riesce di colpo a gettarci in un inconsueto stato di consapevolezza, di farci percepire incredibili modelli visivi grazie a strumenti che hanno quasi il fascino proprio d’un microscopio d’alta potenza.
Si potrebbe definire come “descrittiva”, piuttosto che “lirica” o “drammatica”, la poesia di Marianne Moore, o la maggior parte di essa. Si crede generalmente che la poesia descrittiva sia legata a un certo periodo, e quindi condannata a un rapido tramonto; e invece essa è uno dei modi permanenti d’espressione. Nel secolo diciottesimo –o, se si preferisce, nel periodo che comprende Copper’s Hill, Winsdor Forest ed Elegy di Gray– la descrizione della scena è il punto di partenza per riflessioni su questo quel tema. La poesia del romanticismo, dal peggior Byron al miglior Wordsworth, oscilla tra riflessione ed evocazione; ma la descrizione, il quadro messo dinanzi al lettore, risponde sempre allo stesso scopo.
Il fine dell’ “imagismo”, per quanto ne capisco, o per quanto si possa parlare di un fine, era quello di promuovere una particolare concentrazione su un dato visivo per poi mettere in movimento una successione sempre più ampia di sensazioni concentriche. Alcune poesie di Marianne Moore –per esempio, quelle che riguardano animali o uccelli– hanno un vastissimo spettro di associazioni. Sarebbe difficile dire quale sia il “soggetto-tema” di una poesia come Il gerboa. Per uno spirito così agile, e per una sensibilità così reticente, il soggetto meno importante, com’è appunto un grazioso animaletto saltellante che ha il colore della sabbia, può essere il mezzo migliore per liberare le emozioni più profonde. Soltanto il “letteralista pedante” può giudicare banale il soggetto-tema: la banalità è dentro di lui. Ognuno di noi deve scegliere quel qualsiasi soggetto-tema che gli offra il mezzo per la liberazione più efficace e più segreta: e questa è una faccenda del tutto personale.
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